Gli anziani muoiono in ospedale con eccesso di cure.

Mauro Sartorio
[Ascolta il video-podcast (durata 9 minuti) e iscriviti al canale YouTube]



L'ospedale è spesso percepito come un luogo ostile, che assomiglia più alla catena di montaggio di una fabbrica che ad un ricovero di esseri umani psichicamente e fisicamente deboli.
In un'epoca in cui:

- profitto e finanza hanno fagocitato le risorse di una sanità che dovrebbe essere totalmente estranea alle regole e agli abusi del mercato;
- chi vi lavora è sottoposto a ritmi e direttive sempre più serrati e ingessanti;
- chi vi lavora è molto preoccupato delle conseguenze legali delle sue azioni;
- il paziente reificato è diventato un consumatore, la cui ipocondria è fomentata da una comunicazione che lo spinge a sovra-medicalizzarsi da solo, di propria volontà e a volte anche in pretesa;
- la cultura della medicalizzazione preventiva totale rifiuta la morte per principio

in queste condizioni è estremamente frequente trovarsi in pericolo per eccesso di cure.
Non a caso esiste oggi la prevenzione quaternaria, che si occupa di arginare gli eccessi di medicalizzazione.

Una delle situazioni più eclatanti in cui ciò accade, e che molti di noi avranno sperimentato in prima persona, è la cura delle persone anziane, già bersaglio preferito dal mercato farmaceutico.
Gli ospedali traboccano di anziani, e probabilmente non dovrebbero.

Pur essendo assolutamente contrario filosoficamente, umanamente ed eticamente alla pena di morte, ci sono altre morti che mi colpiscono e mi addolorano maggiormente.
Penso alla morte delle persone anziane. 



Come muoiono oggi i vecchi? Muoiono in OSPEDALE
Perché quando la nonna di 92 anni è un po’ pallida ed affaticata deve essere ricoverata. 
Una volta dentro poi, l’ospedale mette in atto ciecamente tutte le sue armi di tortura umanitaria. Iniziano i prelievi di sangue, le inevitabili fleboclisi, le radiografie.

“Come va la nonna, dottore?”. “E’ molto debole, è anemica!”.
Il giorno dopo della nonna ai nipoti già non gliene frega più niente!
“Come va l’anemia, dottore?”. “Che vi devo dire? Se non scopriamo la causa è difficile dire come potrà evolvere la situazione”.
“Ma voi cosa pensate?”. “Beh, potrebbe essere un’ ulcera o un tumore… dovremmo fare un’ endoscopia”. 
Io faccio il chirurgo e lavoro da venti anni in ospedale. Mi sono trovato moltissime volte in situazioni di questo tipo. 
Che senso ha sottoporre una vecchia di 92 anni ad una gastroscopia? Che mi frega sapere se ha l’ulcera o il cancro? Perché deve morire con una diagnosi precisa? 
Ed inevitabilmente la gastroscopia viene fatta perché i nipoti vogliono poter dire a se stessi e a chiunque chieda notizie, di aver fatto di tutto per la nonna.
Dopo la gastroscopia finalmente sappiamo che la vecchia ha solamente una piccola ulcera duodenale ed i familiari confessano che la settimana prima aveva mangiato fagioli con le cotiche e broccoli fritti, “…sa, è tanto golosa”.

A questo punto ormai l’ ospedale sta facendo la sua opera di devastazione. 
La vecchia perde il ritmo del giorno e della notte perché non è abituata a dormire in una camera con altre tre persone, non è abituata a vedere attorno a sé facce sempre diverse visto che ogni sei ore cambia il turno degli infermieri, non è abituata ad essere svegliata alle sei del mattino con una puntura sul sedere. Le notti diventano un incubo. 
La vecchietta che era entrata in ospedale soltanto un po’ pallida ed affaticata, rinvigorita dalle trasfusioni e rincoglionita dall’ambiente, la notte è sveglia come un cocainomane. 
Parla alla vicina di letto chiamandola col nome della figlia, si rifà il letto dodici volte, chiede di parlare col direttore dell’albergo, chiede un avvocato perché detenuta senza motivo.
All’inizio le compagne di stanza ridono, ma alla terza notte minacciano il medico di guardia “…o le fate qualcosa per calmarla o noi la ammazziamo!”. 
Comincia quindi la somministrazione dei sedativi e la nonna viene finalmente messa a dormire.

“Come va la nonna, dottore? La vediamo molto giù, dorme sempre”.
Tutto questo continua fino a quando una notte (chissà perché in ospedale i vecchi muoiono quasi sempre di notte) la nonna dorme senza la puntura di Talofen.
“Dottore, la vecchina del 12 non respira più”.
Inizia la scena finale di una triste commedia che si recita tutte le notti in tanti nostri ospedali: un medico spettinato e sbadigliante scrive in cartella la consueta litania “assenza di attività cardiaca e respiratoria spontanea, si constata il decesso”. 
La cartella clinica viene chiusa, gli esami del sangue però sono ottimi. 
L’ospedale ha fatto fino in fondo il suo dovere, la paziente è morta con ottimi valori di emocromo, azotemia ed elettroliti.
Cerco spesso di far capire ai familiari di questi poveri vecchi che il ricovero in ospedale non serve e anzi è spesso causa di disagio e dolore per il paziente, che non ha senso voler curare una persona che è solamente arrivata alla fine della vita. 
Vengo preso per cinico, per un medico che non vuole “curare” una persona solo perché è anziana. “E poi sa dottore, a casa abbiamo due bambini che fanno ancora le elementari non abbiamo piacere che vedano morire la nonna!”.
Ma perché? Perché i bambini possono vedere in tv ammazzamenti, stupri, “carrambe” e non possono vedere morire la nonna? Io penso che la nonna vorrebbe tanto starsene nel lettone di casa sua, senza aghi nelle vene, senza sedativi che le bombardano il cervello, e chiudere gli occhi portando con sé per l’ultimo viaggio una lacrima dei figli, un sorriso dei nipoti e non il fragore di una scoreggia della vicina di letto.
Regaliamo ai nostri vecchi un atto di amore, non cacciamoli di casa quando devono morire.


Questo testo è stato condiviso decine di migliaia di volte sui social network negli ultimi mesi a nome di Antonio Pace: in realtà il vero autore è il medico chirurgo a Roma Carlo Cascone, che ha scritto questo blog nel 2009 (Fonte: Notti di Guardia).
È stato così fortemente condiviso perchè molti, forse troppi, si rispecchiano nell'esperienza con grande impotenza, sia i pazienti, sia i parenti dei pazienti, sia i medici e gli infermieri.
L'accompagnamento a fine vita è uno di quegli ambiti in cui collettivamente produciamo risultati che individualmente nessuno vorrebbe.
Un sistema schiacciato tra paure e burocrazia che travalica troppo spesso i confini della dignità umana.

Una delle vie di uscita è far sì che i pazienti e i loro parenti siano coscienti della necessità di assumersi la responsabilità di sé anche in queste condizioni limite.
E che molti medici, quando le persone hanno questa forza interiore, non aspettano altro che assecondarli.

Dal 2018 in Italia è possibile registrare il Testamento Biologico, un documento che offre a tutti la possibilità di dichiarare le proprie intenzioni rispetto all'interruzione di terapie, al rifiuto dell'accanimento terapeutico, qualora non si fosse più coscienti.
Impariamo però a farlo anche da coscienti.


Il fratello anestesista di Carlo, Massimo, scrive questa bella "Lettera al paziente": la riporto a margine perchè mostra tra le righe tutto l'urgente bisogno di un ponte medico-paziente, costruito con il contatto umano, all'interno di un sistema che produciamo collettivamente ma nessuno vorrebbe, lasciando i suoi attori con un senso di alienazione e impotenza.