Se la salute giustifica il razzismo: TBC, poliomielite, ebola, scabbia et cetera

Mauro Sartorio
Avviso: questo articolo potrebbe non essere immediatamente comprensibile, poichè contiene diversi concetti non diffusamente acquisiti.

Il razzismo, ovvero la discriminazione tra esseri umani in base all'origine geografica, può avere radici diverse in ogni singolo individuo: da chi sente minacciata la propria identità da una cultura sconosciuta, a chi sente invaso il proprio territorio, a chi ha paura che gli venga portato via qualcosa come la casa o il lavoro; da chi ha avuto esperienze traumatiche nella sua storia personale a chi ha avuto un'educazione immersa in un passato o un presente di guerre etniche e religiose...e numerosi altri motivi.
Ognuno ha le sue rispettabilissime ragioni profonde, che poi cerca di affrontare e risolvere attraverso il razzismo.
Ragioni così particolari e soggettive che nessuno può conoscere a priori; probabilmente nemmeno lo stesso "razzista" le conosce.
Anche chi si infiamma sull'altro versante, il guerriero impegnato nella lotta alla discriminazione, lo fa con il suo movente particolare: se hai letto la Fenomenologia della percezione, sai che sto parlando di reazioni automatiche, routine, a protezione di un qualche profondo dolore personale o comunitario.
Siccome il dolore personale che la reazione razzista protegge è quasi sempre così ben nascosto da essere invisibile o comunque inosservato, la coscienza va alla ricerca di un significato esterno che possa chiudere il cerchio, un pretesto che possa dare un senso a quella lacerazione profonda.

Ognuno potrà riconoscere i pretesti più vari che giustifichino l'emarginazione di un gruppo etnico, ma in questa sede parliamo del pretesto sanitario, che cavalca spesso l'onda mediatica e, negli ultimi mesi, in modo sempre più aggressivo.
Il pretesto dello "straniero che porta le malattie" ha certamente un'origine ancestrale, ma spesso nasconde e protegge una paura soggettiva diversa, soprattutto quando il rischio sanitario non ha fondamento concreto e razionale.

Spingendoci ancora oltre, in un mondo in cui le leggi biologiche fossero culturalmente integrate, lo spauracchio dell'epidemia portata dall'immigrato non avrebbe il ben che minimo appiglio.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a ondate di terrorismo mediatico sul rischio "influenze" (aviaria, suina...), sul rischio tubercolosi portata dagli sbarchi clandestini, sul rischio del ritorno della poliomielite in Europa a causa di particolari flussi migratori, sul rischio ebola dall'Africa, sul rischio scabbia che in questi giorni imperversa sui giornali.
La paura del rischio epidemico è molto radicata, perciò è molto efficace come pretesto razziale: "non si faccia entrare e si tenga lontano lo straniero perchè è pericoloso per la salute".
"Noi siamo polio free, voi andate via di qua".
Tuttavia, ne ho già scritto lungamente, "malattia infettiva" e "untore" sono concetti medievali che è giunto il momento di lasciarci alle spalle.
Alcune malattie cosiddette "infettive" sono rare nella nostra opulenta società non perchè la medicina abbia vinto la guerra contro il male, ma perchè le condizioni di vita sono migliorate in modo drastico negli ultimi decenni.
Condizioni che, invece, non sono così tanto migliorate (in certi casi il contrario) proprio in quei paesi dai quali fuggono masse di profughi che spesso vivono il terrore della guerra e la carenza delle necessità primarie.

Farò delle generalizzazioni azzardate (si ricordi che le 5LB non hanno validità se non in relazione al personalissimo vissuto del singolo individuo): possiamo non considerare il panico della morte che può accompagnare un profugo che, non solo può aver rischiato di essere ucciso dentro la sua stessa casa a causa di una guerra spaventosa, ma ha anche avuto altissime probabilità di perdere la vita, traghettato come un animale, su un barcone in mezzo al mare?
Possiamo non considerare il terrore di una madre che, non solo deve cercare di sopravvivere, ma rischia in ogni istante di perdere il suo bambino?
In seguito a un susseguirsi di disgrazie senza respiro, possiamo concedere all'organismo dei profughi, quelli che riescono a mettere il piede finalmente su una terra sicura, di riposarsi con un intenso processo riparativo degli alveoli polmonari, la cosiddetta tubercolosi? (Qui un approfondimento sul processo tubercolotico)
Possiamo non immaginare che un organismo nel periodo dello sviluppo, impedito a fuggire da qualche catastrofe, possa reagire a questa incessante condizione tra la vita e la morte? (Qui un approfondimento sulla poliomielite)
Possiamo non sospettare che ogni rifugiato sia costretto a vivere "sulla propria pelle" una straziante separazione dai propri cari? (Qui un approfondimento sulla scabbia e il parassitismo)

Possiamo davvero credere che tutto questo sia indifferente per l'organismo?
Possiamo credere che una persona che passa attraverso tali tragedie arriverebbe solo un po' stanchina?
Possiamo fingere che tutto ciò non sia rilevante, e sostituirlo con l'immagine ingenua di un profugo che sarebbe malato giusto perchè trasporta germi da una nazione sporca e infetta? Il profugo come vettore di iattura?

Purtroppo no, la malattia non segue le leggi del commercio: perchè dall'altra parte, se l'organismo non vive il pericolo di restare privo dell'essenziale (l'aria) e morirne, non ha alcuna ragione di avviare un processo polmonare e, di conseguenza, i micobatteri silenti della tubercolosi non hanno alcuna ragione per "svegliarsi".
Se l'organismo non vive una drammatica separazione dal proprio ambito familiare, non è terreno fertile per i parassiti come la scabbia.
Finchè anche tu non vivrai una condizione ai limiti della vita, il tuo organismo non avrà motivo di reagire con fisiologia speciale.
Mi spiace, se proprio vuoi ammalarti, avvicinando un profugo (persona che cerca scampo) non ce la puoi fare.

Dove sta quindi il contagio?
Non c'è nessun contagio, se non nella percezione che l'organismo ha dell'ambiente, la quale può certamente accomunare un numeroso gruppo di persone.
Cioè molti individui possono percepire una certa situazione critica in modo simile, e trovarsi nella evidente e sensata necessità biologica di reagire.

Se non hai capito molto di quello che hai appena letto, comincia a conoscere le leggi biologiche e in particolare la quarta legge biologica.


Foto sotto licenza CC di United Nations Photo