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In una raccolta di racconti di autori vari edita proprio oggi da Einaudi, Alessandro Baricco tratta il tema della perdita, di qualcosa o qualcuno, che tutti siamo chiamati ad affrontare nella vita.
Perdere qualcuno, spesso con un senso di ingiustizia, è una esperienza che in molti riverbera con la sensazione della ripetizione perpetua, di una persecuzione che comincia dall'infanzia e da cui sembra non ci si riesca a liberare.
Perché finisco sempre in quelle situazioni? Perché tutte a me che poi finiscono sempre in quel modo?
A volte attaccamento e possesso diventano una ossessione, al punto che anche le piccole vicende quotidiane stimolano gli organi del corpo mantenendo le persone in una spirale dai più svariati sintomi cronici. Quando hai visto che lei parlava con uno, quando per fare quella cosa il tuo amico ha scelto un altro invece che rivolgersi a te, quando anche solo scorgere un particolare sguardo ti fa sentire messo in disparte...
Tutto diventa quotidiano perché siamo incastrati sui binari di esperienze passate che ci hanno segnato, che con grande probabilità risuonano a livello epigenetico con quelle vissute dai nostri antenati, e per le quali siamo diventati ipersensibili.
Essenzialmente diventiamo allergici (e non è un modo di dire) a quegli accadimenti che ci fanno sentire il rischio di perdere qualcuno o qualcosa.
È in questo scenario che dobbiamo leggere il giudizio che fa Baricco sulla diffusa "inclinazione a sopravvalutare la perdita di cose o persone", perché "gli umani tendono ad aggrapparsi a ciò che se ne sta andando, nella folle convinzione che quanto stanno perdendo sia indispensabile alla loro sopravvivenza. Alle volte, seppur per un lasso di tempo misurato, perfino una borsetta, rubata, o un quarto d’ora, perso ad aspettare in coda, possono assumere mitologicamente la statura di una perdita mortale."
In questa sede lo sappiamo bene: gli eventi che ci accadono - il furto di una borsetta o del tempo in una coda - non hanno mai un peso oggettivo, ma ogni esperienza incorpora una inestricabile articolazione di significati personali che mettono radici in DHS, ovvero shock biologici, più o meno intensi e rilevanti per la persona.
Così inquadrato, penso che il breve racconto di Baricco, scrittore sopraffino dalle grandi capacità evocative, possa offrire spunti di consapevolezza per riconoscere certe situazioni in cui, se siamo svegli, ci renderemo conto di essere in Fase Attiva ricevendo una spinta ad affrontare le cose in modo diverso.
Estraggo alcuni stralci, lasciando i riferimenti per leggere il testo integrale.
L’idea, di per sé folle, di possedere qualcosa o addirittura qualcuno ci accompagna, condannandoci a un lavoro di polizia costante e di sorveglianza maniacale. Viviamo esistenze fatte di casseforti, contraeree, allarmi e ponti levatoi. Giacché, invece di abitare accanto alle cose e alle persone, ne facciamo nostre proprietà, quindi punto di non ritorno, status acquisito: capite che esistenza piena di ansie siamo destinati a colmare coi nostri giorni. Chi possiede, sarà derubato.
Le conseguenze di questa inclinazione a sopravvalutare la perdita di cose e persone sono, come si sa, terrificanti. E si allungano per anni nei giorni della gente. Innumerevoli sono i casi di vite quotidiane ridisegnate dallo shock di una perdita, e non sembra poi avere una grande importanza la dimensione della perdita. Come la morte di una persona cara può trasformarsi in un verdetto di condanna su un’intera vita, la perdita di una possibilità di lavoro, o di una onorificenza, o di una gara, può allungarsi come un’ombra nera su tutte le vite circostanti, per anni.[...]È straziante pensare quale luce e quanta vita si sarebbe potuto generare se solo si fosse stati capaci, in quel preciso momento, di lasciare andare le cose, invece che sopravvalutare tragicamente l’effetto del loro abbandono.Si dirà che elaborare una perdita, o un lutto, o un furto, non è una cosa semplice, e che in generale non si sceglie come reagire allo strappo che ci porta via una vita, una fortuna, un amore: si soffre e basta. Ci si ribella. Ci si vendica. Ma non è poi così vero. La capacità di lasciare andare le cose e le persone parte da lontano, è un modo di stare al mondo ed è cosa che si può educare in ogni nostro fare. Non è vero che ci sia estranea, ci è solo, culturalmente, lontana. Ma ci appartiene e, se solo evitiamo di arrenderci senza condizioni alla paura, la possiamo ritrovare nelle mosse più spontanee del nostro animo.[...]Analogamente, non è affatto fuori dalla nostra portata la capacità di trovare saldezza e riparo non tanto nelle cose e persone in mezzo a cui viviamo (e che ci illudiamo di possedere) ma in una regione intima del nostro sentire che, come un’isola, come un ombelico, come una sorgente, pre-esiste all’arrivo di qualsiasi scheggia di mondo, e sopravvive, intonsa, a qualsiasi suo dileguarsi. Bisogna avere fiducia in questa nostra camera segreta, e non cessare di cercarla, in noi stessi. Si trova più o meno dove la nostra vita interiore incrocia il respiro del corpo, il flusso impalpabile dei ricordi, un inconsueto amore per noi stessi, e una strana calma. Lì, nessuna perdita è disastrosa. Al limite, neanche quella della vita.
Tratto dal libro
AA.VV. a cura di Arnaldo Greco
(Einaudi Stile libero pagg. 176)