Pressione del sangue: i beta-bloccanti servono ad avere numeri belli quando si muore

Mauro Sartorio
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Abbiamo riportato altrove che ben l'89% delle prestazioni sanitarie di uso corrente non è fondato su chiare prove di efficacia, ma generalmente su evidenze di bassa qualità, sulla consuetudine, sulla "plausibilità biologica".
È quindi altamente probabile che qualcuno tra di noi, o qualcuno nella nostra famiglia, in questo momento sia sottoposto a trattamenti di cui non si conosce l'efficacia, forse inutili.
Non è un'eventualità rara, e non conviene assumere quell'atteggiamento di devozione "ciò che dice la scienza è indiscutibile", perchè lo stesso medico si districa nell'accompagnare i propri pazienti alla scelta terapeutica più adeguata, con una proporzione di 11% di scienza, coprendo il rimanente 89% con coscienza

Un esempio molto comune che mette in risalto questo grado di incertezza riguarda il trattamento della pressione arteriosa quando c'è "ipertensione".
Le istituzioni sanitarie parlano di rischio di infarto e ictus enormemente maggiore in presenza di pressione alta.
Il CDC riporta che una persona su tre negli Stati Uniti ha la pressione alta e, di conseguenza, sarebbe a rischio di eventi cardiovascolari. In Italia la proporzione è allineata a quella americana.
Ogni anno sono fatte circa 34 milioni di prescrizioni di Atenololo (il 14esimo farmaco più venduto, dati del 2010), uno dei più comuni beta-bloccanti, con il fine di ridurre la pressione arteriosa e il ritmo cardiaco.
La paura della pressione alta è estremamente radicata nella nostra cultura.

Nel 1988 Sir James Black ha vinto il Premio Nobel per la sua scoperta, fatta negli anni 60, sui beta-bloccanti. La commissione dichiarò "È la più grande scoperta in fatto di farmaci contro le malattie del cuore, fin dal primo uso della digitale purpurea che risale a 200 anni fa."
Dal 1981, anno in cui la FDA approvò l'Atenololo poichè mostrava la capacità di ridurre drasticamente la pressione sanguigna, il farmaco è diventato uno standard per il trattamento dell'ipertensione, tanto che viene usato come riferimento di comparazione negli studi di efficacia su altri farmaci.

Tuttavia, lo abbiamo già spesso verificato con il colesterolo, l'epatite C, i vaccini... gli studi sui farmaci sono generalmente eseguiti sulla base di "obiettivi surrogati", cioè sulla capacità che hanno di modificare alcuni "marcatori" e valori misurabili.
Eppure, il fatto che questa alterazione artificiale di valori sia di reale beneficio alla persona, è una conclusione spesso fondata su ipotesi non verificate, "biologicamente plausibili", magari anche sostenute da grandi luminari, ipotesi che con il tempo penetrano con dignità di "certezza" nell'immaginario collettivo e, a volte, finanche nella ricerca e nelle istituzioni.

Almeno finchè il tempo e l'applicazione nel mondo reale riescano a restituire informazioni sulla concreta efficacia sulla salute pubblica, cioè non sui numeri dei macchinari ma sul vero beneficio rispetto alla qualità della vita, alla morbilità e alla mortalità.

Nel 1997 un ospedale svedese ha compiuto uno studio su 9000 pazienti "ipertesi", durato 4 anni, per comprendere se il farmaco Losartan fosse più o meno efficace del Atenololo in termini di salute: i risultati furono soddisfacenti perchè il gruppo trattato con Losartan andò incontro a meno morti (204 contro 234) e meno ictus (232 contro 309).
Emergeva però, tra le righe, un dato significativo: entrambi i medicinali abbassavano dello stesso identico valore la pressione sanguigna. Come si poteva spiegare, allora, la differenza nei risultati clinici?
L'ipotesi che la pressione alta sia la causa di eventi cardiovascolari ha iniziato a scricchiolare.
Così quello strano risultato è stato messo sotto i riflettori da uno studio successivo del 2004 (8 RCT con 24000 pazienti), che ha finalmente comparato l'Atenololo con una pillola di zucchero.
Il risultato? 
Il beta-bloccante non previene gli infarti e non estende l'aspettativa di vita: in sintesi, chi è trattato con Atenololo semplicemente muore come chi non lo assume, ma con valori della pressione più bassi.
Ma ne subisce anche gli effetti collaterali, addirittura ictus, tanto che lo stesso studio ha criticato l'uso dell'Atenololo come farmaco di riferimento nella ricerca.

Dice John Mandrola, cardiologo di Louisville (USA): "Sì, noi possiamo muovere dei numeri, ma questo non si traduce necessariamente in migliori risultati sulla salute. 
È dura non cadere nella deduzione che, quando i pazienti prendono una pillola e vedi i loro numeri migliorare, la loro salute sia di conseguenza migliorata".

La questione intorno ai beta-bloccanti è complessa, perchè altri studi hanno verificato l'efficacia nel ridurre infarti e ictus.
Ma sappiamo bene che le contraddizioni della ricerca sono una costante inevitabile, e solo un profondo lavoro di revisione continua può appianare le divergenze ed avvicinare la conoscenza alla realtà dei fatti.
Una recentissima revisione di Cochrane ha in effetti valutato che i beta-bloccanti non hanno effetti sugli eventi cardiovascolari (ictus e infarti) e che esistono farmaci più efficaci.

Nonostante le crescenti evidenze, ormai da decenni, siamo in un periodo intermedio in cui le prescrizioni di beta-bloccanti sono ancora numerose. Siamo consci che la trasformazione delle consuetudini cliniche non è immediata e, per numerosi motivi, necessita di tempo.
I dati di QuintilesIMS, che fornisce informazioni all'industria, mostrano che le prescrizioni di Atenololo stanno scendendo gradualmente di 3 milioni all'anno: questo significa che, dalla prima scoperta che l'Atenololo non funziona, sarebbero necessarie circa due decadi per trasferire le nuove acquisizioni nella realtà clinica. Sono trasformazioni generazionali.

Se abbiamo scoperto che i premiati beta-bloccanti non funzionano, resta ancora quel sospetto che la correlazione tra valori pressori e gravi eventi cardiovascolari non sia così stretta come ci si immaginava (qui una revisione di Cochrane del 2012). O meglio, è probabile che non ci sia una relazione di causa-effetto.
Come direbbe il dott. David Brown, professore all'università di Washington: "Il sistema cardiovascolare è più complesso del lavandino di una cucina".

Con il passare delle generazioni si sbroglierà anche la matassa intorno all'eziologia delle "malattie" cardiache.
Oggi suggeriamo una direzione di ricerca a partire dal modello 5LB: quali sono le cause delle variazioni della pressione sanguigna? Sono correlate ad infarti e ictus, o questi ultimi sono eventi con una propria eziologia specifica?